49° lettera dalla missione: Cammini di libertà e di liberazione

“La Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.
Il Verbo continua a parlare nella storia e a servirsi di chi è chiamato ad annunciarlo. Un annuncio non solo fatto dalla Parola di Dio, ma anche intessuto nella presenza e nell’amicizia di quei missionari che ogni giorno si ritrovano indegnamente a farsi quinto vangelo vivente in carne ed ossa.

Dal 2019 la nostra Diocesi di Reggio Emilia – Guastalla si è fatta compagna di viaggio, sorella della Chiesa locale dell’Alto Solimões. Così ci troviamo nella città di Santo Antonio di Içà. Un territorio segnato da tanti dei mutamenti che stanno trasformando l’Amazzonia: urbanizzazione, individualismo, mercantilizzazione. Si può dire che alla rottura dei legami tradizionali non è seguita la costruzione di grandi opportunità di benessere per tutti. Per noi missionari Fidei Donum questo significa doversi confrontare con le povertà materiali e spirituali, con le solitudini, ma anche con il fardello della droga, particolarmente pesante lungo un fiume che è una delle principali arterie mondiali del traffico di stupefacenti.

Da 5 anni percorriamo il Rio Içà, risalendolo dalla foce posta nella città di Santo Antonio fino al confine della sterminata parrocchia, corrispondente a quello tra Brasile e Colombia, dove il Rio Içà prende il nome di Putumayo. 357 kilometri dove ormai conosciamo nomi, volti e vite degli abitanti, le loro paure, gioie e aspettative. Un rapporto che è reale, che nutre la vita spirituale di queste genti, spesso smarrite in un’epoca di cambiamenti di cui nessuno scorge l’orizzonte. Abbiamo ricevuto un lascito e ora proviamo a costruire un patto di fiducia per crescere insieme con le Comunità del fiume.

In questa parte di mondo, le distanze senza confronti, le comunicazioni interrotte e le poche risorse disponibili hanno insegnato alla Chiesa un nuovo modello di pastorale, che oggi vive anche nelle città: la parrocchia, più che una struttura verticistica, diventa comunità di comunità, in cui le responsabilità sono diffuse e le potenzialità dei laici coltivate. All’interno dei quartieri cittadini così come dei villaggi indigeni, il laico cerca di condividere la vita di fede con le stesse persone con cui condivide la fatica di ogni giorno. È un lavoro difficile, di continuo messo in discussione dalle tendenze disgregatrici della società. Ma è anche una sfida nuova per il cristiano, chiamato non solo a ricevere l’annuncio, ma a rielaborarlo e a viverlo con autonomia e maturità. Compito del prete è saper accompagnare questo processo. Solo così, attraverso il lavoro collettivo, è possibile mantenere accesa la fiamma della fede, affidandosi ogni giorno al mistero della rivelazione che opera in forme che non possiamo prevedere.

Lo sappiamo: l’evangelizzazione in Amazzonia è avanzata insieme all’invasione colonizzatrice e a tutto il suo lascito di violenza, sfruttamento, devastazione, assimilazione. Forse è stata proprio questa contraddizione estrema tra salvezza e dannazione, vissuta sulla propria pelle, a spingere la Chiesa latinoamericana a scegliere e non solo orientare; a sapere optare per i poveri e non per i potenti, senza compromessi; a identificare la missione di Gesù Cristo con la difesa degli ultimi e dei marginalizzati; e a capire poi che lo Spirito Santo soffia dove vuole, anche sulle culture e sulle fedi delle tante comunità indigene che hanno accolto il Cristianesimo senza per questo rinunciare alle proprie visioni del mondo e alle proprie mitologie.

Testimoniare a queste genti la risurrezione di Cristo significa dire in modo credibile che la legge del più forte non è un destino già scritto; che la Chiesa è al loro fianco nella difesa dai soprusi che in queste terre non hanno mai smesso di minacciare il bene comune; che gli obiettivi del profitto non possono calpestare i diritti né divorare i loro rapporti sociali e i loro legami con le risorse naturali; ma anche che le tentazioni del guadagno privato facile a scapito della ricchezza collettiva possono diventare una pericolosa illusione per le stesse comunità del fiume; che il rischio di dissolvere la coesione tradizionale del gruppo e lasciare l’individuo in balia delle forze anonime del mercato è sempre dietro l’angolo.

La vicinanza che i cittadini di queste comunità ci chiedono è soprattutto quella del momento della sofferenza. E qui il volto più drammatico della sofferenza è la dipendenza da alcool e droghe, con tutto il suo carico di violenza, povertà, lacerazioni. Abbiamo cercato percorsi che potessero dare un contributo per riempire quegli spazi vuoti in cui l’angoscia del futuro e la mancanza di prospettive possono diventare il terreno di coltura della droga tra i giovani. E abbiamo trovato una risposta nello sport, che non può sostituire il lavoro, ma può trasmettere quei valori che sono il contrario della fuga nell’illusione: impegno, ascolto, collaborazione, lealtà. Abbiamo così sostenuto la nascita e il funzionamento di un’associazione che permette a decine di bambini e giovani di coltivare una passione che aumenta di pari passo con il rispetto di sé stessi e degli altri. La pratica dello sport sano è come una piccola testimonianza quotidiana della virtù della speranza.

Liti, solitudini, incertezze sono malattie che incontriamo in ogni viaggio sul fiume. Le perplessità degli anziani e la sfiducia dei giovani fanno parte ormai del panorama umano dell’Amazzonia. E per molte persone sofferenti, la presenza del missionario finisce per essere un appiglio di speranza, l’incoraggiamento e la mano tesa del buon pastore: “Sceso dalla barca, Gesù vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose”. Qui non c’è logica performativa, non siamo di fronte a uno dei tanti adempimenti burocratici che investono la nostra vita di tutti i giorni: “il Padre vostro che è nei cieli non vuole che uno solo di questi piccoli perisca”.

Per molti purtroppo non basta un’attività che tenga lontano dai pericoli della strada. Eppure sono tante le persone che non hanno perso il desiderio di risorgere dall’inferno delle dipendenze. A questi manca la forza e l’opportunità. La pastorale della Sobrietà è un tentativo di unire le forze presenti in città, di coinvolgere chi vuole uscire dalle dipendenze in un percorso che parta dall’ascolto e possa terminare in un progetto di recupero della persona legato al reinserimento familiare e lavorativo. Siamo solo all’inizio, ma conforta vedere come il bene comune abbia unito nello sforzo noi cattolici con altre confessioni cristiane, a dimostrazione che una Chiesa che si sforza di cercare Cristo nell’incontro col prossimo impara anche a superare le divisioni.

La Missione in Amazzonia ci suggerisce una spiritualità integrale, capace di abbracciare la salvaguardia del Creato, con occhi privilegiati alla dignità di ogni persona umana e al bene comune, sui passi di Gesù: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi – dal peso dell’esclusione sociale, dall’ingiustizia strutturata, dal potere economico e tecnologico, dal colore della pelle e dal linguaggio, dalla cultura dominante e religiosa – Venite a me e io vi darò ristoro”. Siamo chiamati a farci carico di un amore universale e di una fraternità affettiva ed effettiva, che serva la vita e faccia giustizia ai poveri. “Prendete su di voi il mio giogo che è leggero” perché, oltre la fede e la speranza, solo l’amore rimane. Così il Centro Missionario Diocesano della nostra Chiesa locale di Reggio Emilia – Guastalla vive il suo impegno di servizio, affinché, camminando insieme a questa Chiesa dell’Amazzonia, possiamo promuovere integralmente la vita. Viviamo una ecologia integrale che, nella salvaguardia del Creato, riconosce la centralità dell’Umanità e la serve con amore.

Gabriel Carlotti & Burani – missionari dell’Amazzonia

Santo Antonio do Içà, 25 aprile 2024 – festa della liberazione e della resilienza